Ciao Marco, partiamo dall’inizio. Raccontami la tua storia.
Direi che il mio rapporto iniziale con la musica è stato piuttosto travagliato.
Ricordo vividamente quel grande stereo che avevamo a casa: da bambino, mi chiudevo in camera perché ero spaventato dai suoni che provenivano dal giradischi. Il vero punto di svolta è stato quando ho ascoltato la canzone “Time” dei Pink Floyd.
Sai, inizia con quella sequenza di orologi e suoni inquietanti, davvero impressionante.
Mi spaventava così tanto che preferivo rifugiarmi nella mia stanza. È interessante pensare che, qualche anno dopo, sarei diventato completamente affascinato da quel mondo sonoro.
Chi era solito ascoltare questi dischi a casa tua?
Principalmente mio padre.
È stato lui a introdurre la musica nel nostro ambiente domestico. Verso i 13-14 anni, ho iniziato a sviluppare una vera passione per la musica e gli strumenti.
Avevo un desiderio irrefrenabile di mettere le mani su una chitarra e iniziare a scrivere le mie canzoni.
È stato tutto molto genuino e naturale, senza forzature.
Ricordo che il ragazzo di mia cugina mi regalò un mixtape punk rock con i primi Green Day, Blink-182, Offspring e molti altri.
Da lì, ho iniziato a studiare sempre di più, un po’ da autodidatta e un po’ con l’aiuto di un professore di chitarra.
Il mio primo contatto con un ambiente importante è avvenuto grazie alla Disney, il che può sembrare strano, ma è la verità.
A 16-17 anni, ho cantato la colonna sonora di uno dei film più importanti della Disney, “Rapunzel”.
Ero un vero fan Disney, seguivo tantissimo quei programmi, ed è da lì che tutto è cominciato.
Quindi, già a 15-16 anni, avevi in mente di fare qualcosa con la musica? Partecipare a un concorso e poi cantare una canzone per la Disney sembra indicare che avevi già l’intenzione di intraprendere questa strada. Oppure è stato tutto casuale?
Assolutamente no, non è stato casuale.
Sin da giovane, a 15-16 anni, avevo una forte determinazione nel voler fare musica con tutto me stesso.
Quando ho iniziato a vedere che succedevano cose, mi ci sono dedicato con impegno e passione.
Ogni piccolo successo era il risultato della mia determinazione e del desiderio di continuare su questa strada. La volontà di proseguire nel campo musicale è sempre stata molto forte.
Dopo aver cantato quella canzone per la Disney, cosa è successo?
Sono stato coinvolto anche in alcune comparse per serie TV, quindi la mia esperienza con la Disney è continuata per un po’.
Verso i 18-19 anni, ho deciso di provare a partecipare ad “Amici”.
Era il 2011-2012, e in quel periodo ero Marco Castelluzzo, il classico ragazzino che cercava di fare musica.
Non voglio dire che non avevo una direzione precisa, ma ero ancora molto immaturo dal punto di vista musicale.
Forse dovevi solo trovare il tuo percorso e la tua identità musicale. Quando si è molto giovani, l’identità artistica arriva col tempo. Alcuni, addirittura, non la trovano mai; è un’evoluzione continua, non credi ?
Sì, esatto.
Anche se nel tempo i tuoi gusti si affinano, la tua essenza rimane più o meno la stessa.
So di essere ancora la stessa persona di quando avevo 15 anni, solo con gusti musicali più maturi.
C’è una parte di te che non cambia molto, è come un nucleo stabile che resta intatto mentre tutto il resto evolve.
Pensi che aver partecipato ad “Amici” ti abbia dato la possibilità di fare altre cose o è rimasta solo una parentesi a sé?
A livello di esperienza, mi ha insegnato tantissimo.
Considera che venivo da un paesino di 1300 abitanti e mi sono ritrovato catapultato in una città enorme, in una realtà completamente diversa.
Ho imparato molto sulle dinamiche del mondo della discografia e della televisione.
A 19 anni, tutto quel contesto può un po’ confondere, perché non capisci subito cosa sta succedendo e come funziona tutto. Ma, piano piano, realizzi e comprendi. Grazie alla Disney e al talent, a vent’anni sapevo già come funzionavano certe dinamiche.
E’ un bagaglio culturale importante per un artista perché conoscere i meccanismi è fondamentale. Sarebbe fantastico potersi concentrare solo sull’arte, ma la realtà è che un artista deve conoscere ogni aspetto della musica a 360 gradi. La musica diventa un business e, se vuoi viverci, devi conoscere tutte le sfaccettature. Devi capire come funziona l’industria, le dinamiche della discografia, le strategie di marketing e la gestione delle relazioni professionali. Solo così puoi navigare con successo in questo mondo.
Sì, esatto. È verissimo.
Capire queste dinamiche ti aiuta molto, soprattutto quando sarai più maturo e capirai meglio le cose.
L’esperienza nel mondo mainstream mi ha fatto rendere conto che alcune cose non si incastrano perfettamente con la mia persona, sia a livello musicale che nelle scelte artistiche.
Ci sono situazioni che non mi fanno sentire a mio agio, quindi ho deciso di vivere l’arte in un’altra maniera.
Alcune persone riescono ad adattarsi perché sono più tolleranti, io invece ho una tolleranza minore.
Spesso mi sono trovato a sabotarmi da solo in quelle situazioni, quasi come se volessi scappare da determinate circostanze.
Non ti piace chi ti dà dei “paletti”, è così?
Io vedo la questione in modo un po’ più romantico, per così dire.
L’arte e il mercato sono due concetti che non si sposano bene.
Mentre il mercato è un concetto pragmatico, come può esserlo vendere frigoriferi, l’arte ha un valore che va oltre il materiale, toccando una dimensione più spirituale.
Quando l’arte viene inserita in un contesto commerciale, sorgono inevitabilmente dei contrasti molto forti.
Ho scelto di vivere l’arte nel modo in cui l’ho sempre percepita, ispirandomi ai grandi artisti che ammiro.
Al momento mi concentro solo nel fare buona musica e trovare un equilibrio che mi permetta di dormire bene la notte.
Questa per me è la cosa più importante.
Tornare a casa e non riuscire a dormire perché mi sento insoddisfatto e disgustato da quello che faccio non ha senso.
Preferisco restare più svincolato e non legato a certe dinamiche piuttosto che vivere una vita che mi fa sentire una merda.
Dopo quel programma, come si evolve la tua carriera?
Semplicemente, ho deciso di staccare tutto con l’Italia e sono andato a studiare negli Stati Uniti.
Lì mi sono dedicato intensamente allo studio. Ho cercato di dare il massimo per colmare le lacune e soddisfare le esigenze sia come cantante che come chitarrista.
Mi sono concentrato soprattutto sul canto, poiché avevo già una buona padronanza della chitarra.
Durante quel periodo ho scritto moltissime canzoni, ed è lì che ha preso forma il progetto Wepro.
Ho avuto l’opportunità di crescere anche artisticamente, influenzato da molte persone provenienti da diverse parti del mondo. È stata un’esperienza davvero meravigliosa, devo essere sincero.
Quanto tempo sei rimasto in America ?
Tre anni e mezzo.
In America partorisci il progetto “Wepro” . C’ è qualche attinenza particolare con questo nome se posso chiedertelo ?
E’ in realtà un nome legato all’ unione di due parole: “Wedding” e “Project” .
Avevo una band quando ero più giovane che si chiamava Wedding Project.
Il nome non aveva nulla a che fare con matrimoni, era solo un nome.
Ho iniziato a lavorare con questo pseudonimo su Facebook, dove semplicemente univo le due parole “wedding” e “project”. Da lì, tutti i miei amici hanno iniziato a chiamarmi così.
Non l’ho scelto io, è stato un soprannome che è rimasto.
Vorrei parlare ora del tuo disco. I pezzi che sono inclusi nell’album “WePro” sono brani nati in America?
Questo album è stato gestito principalmente dal 2021 in poi. Prima è uscito un EP, e successivamente l’album completo.
Il tuo è un disco ricco con 14 tracce e molte sfaccettature. Fino all’undicesima traccia, ha una spinta incredibile, non smette mai, non si ferma mai. Ti aspetti che arrivi qualcosa di più soft, ma in realtà non arriva mai fino dall’undicesima traccia in poi, dove emergono le chitarre acustiche e il pianoforte, arrivano le ballad un po’ più introspettive, più sognanti. Da dove ti arriva l’idea di mescolare tutte queste influenze? Perché non è semplice suonare un disco in un certo modo buttandoci dentro diverse cose. Molte volte i dischi che suonano meglio sono quelli più scarni, dove c’è solo basso, batteria e chitarra, e più ci aggiungi roba e più diventa tutto molto più complesso da gestire. Nel tuo disco sento molte cose, ma suona comunque molto bene. Come hai pensato, a livello artistico, di giungere a quel tipo di sound?
Ti ringrazio per il tuo apprezzamento.
Essendo un amante della musica in generale, non riesco mai a focalizzarmi solo su un genere. Per me, fare solo una cosa sarebbe molto limitante.
Alcuni dischi poetici con solo tre strumenti possono essere molto belli, ma personalmente mi stanco presto. L’ultimo disco che sono riuscito ad ascoltare dall’inizio alla fine con molto piacere è stato quello di Jack White, o quello dei Bud Spencer Blues Explosions.
Quindi, per me, la varietà è sempre stata molto importante. Ho cercato di essere eclettico, ma ho mantenuto come punti chiave la mia voce, lo scrittoio sonoro e alcuni suoni di chitarra che sono centrali nell’album.
Per i suoni, hai attinto da qualche ispirazione particolare oppure è una cosa che hai fatto tu sperimentando e che quindi hai detto “cavolo, questo suono proprio mi piace, lo sento mio e di conseguenza lo voglio adattare anche per una linea guida del mio stile”?
E’ andata esattamente così.
Mentre sperimentavo e lavoravo su diverse idee, ho trovato alcuni suoni che mi piacevano molto e si adattavano perfettamente allo stile dell’album.
Ho deciso di incorporarli su tutti i pezzi, senza forzare troppo. È stato un processo naturale, e alcune volte questi suoni si sono integrati in maniera automatica, incollando tutto insieme.
Tu hai aperto diversi concerti di artisti molto famosi. Quando un artista deve aprire un concerto di un altro artista mondiale e si trova di fronte al pubblico che non è di fatto il “suo pubblico”, qual è l’approccio che si ha prima di salire sul palco?
In realtà, non ho mai avuto paura del pubblico.
Ero abituato a suonare musica di un certo livello. Mi sono detto: “Va bene, sono qui. Mi hanno scelto perché mi ritenevano adatto per questo ruolo.”
Alla fine, il pubblico ha sempre apprezzato davvero tanto la mia musica. È stato un momento incredibile. Ho avuto l’opportunità di aprire il concerto di Tom Morello, una delle mie più grandi influenze.
Ho letto una tua dichiarazione sul rock, correggimi se sbaglio, ma tu dici che il rock oggi non è indossare un giubbotto di pelle o suonare una chitarra distorta, ma è un insieme di altre cose. Se dovessi dire che genere propone Wepro oggi, cosa risponderesti ?
Guarda, ti rispondo così: Wepro fa quello che gli pare.
Non so se sia un genere preciso, ma penso che rappresenti la realtà dei fatti. Questo, per me, è molto rock come ideale.
Assolutamente sì.
Non riesco semplicemente a fare un album tutto basato su una chitarra rock e su un unico stile, perché mi stanco.
Mi piace tutto, faccio tutto, non sopporto le etichette, quindi faccio quello che voglio e basta. Ed era proprio questo che volevo dimostrare anche con l’album.
Mi fa molto piacere che tu abbia notato questa cosa, che non sia monotono, e che ti abbia portato ad ascoltarlo fino alla fine.
Considerando che ci sono tante tracce, è una cosa che apprezzo molto. Ti ringrazio davvero tanto per la tua sensibilità.
Capisco perfettamente quello che dici. Anch’io sono stato dall’altra parte e comprendo quanto sia intenso e personale il processo di creazione di un disco o di una canzone. Solo l’artista può davvero comprendere quanto si soffra nel processo creativo, nelle lunghe giornate in studio alla ricerca del suono perfetto, di quel qualcosa che gli altri forse non potrebbero capire. Quando ascolto dei pezzi, sono sincero, devono colpirmi qualcosa perché io possa andare avanti. Con tutta la musica che esce oggi, è davvero difficile trovare qualcosa che ti sorprenda, che ti spinga ad andare avanti, che ti faccia dire: “Voglio vedere dove va a finire.” È come leggere un libro di cui conosci già il finale: non hai voglia di leggere ogni pagina, salti, vai avanti con leggerezza e forse non arrivi alla fine. Nel tuo caso, come in altri casi in cui ho voluto approfondire le cose, c’è sempre stato qualcosa che mi spingeva a continuare, a voler ascoltare la prossima traccia, a scoprire cosa sarebbe accaduto. E nel tuo caso è stato proprio così: ho finito tutte le tracce, arrivando fino all’ultima. Hai realizzato artisticamente quello che volevi, e questo si sente, anche solo nell’ aver voluto introdurre 14 tracce.
Tra l’altro a tal proposito in realtà le tracce sono quindici perché c’è una ghost nell’album, quindi ho voluto proprio esagerare ma, è successo, però insomma sono contentissimo.
Sei soddisfatto del prodotto finale ?
Sì ma si può sempre fare meglio.
Adesso che è uscito il disco, sei in promozione e hai in programma un tour. Ti si potrà vedere in giro? Cosa stai facendo? Raccontami un po’.
A gennaio-febbraio ho deciso di fare una pausa per scrivere nuovi pezzi. Spero di poter organizzare un tour per ottobre. Al momento Voglio proprio immergermi nel mio studio per sei mesi e lavorare intensamente.
Come crei la tua musica ? Ti affidi a uno studio oppure utilizzi il tuo ?
Sì, solitamente produco tutto qui.
Collaboro con Marco Mantovani, chitarrista e produttore, che è semplicemente fantastico. Ormai è diventato come un fratello per me, è come se fosse parte della mia famiglia.
Quindi, tutto il processo avviene qui. Inoltre, tengo dei corsi di songwriting e produzione e produco anche per altri artisti. Insomma, tutto avviene qui nel mio studio, è il centro di tutto.
Se tu oggi dovessi parlare con chi vuole iniziare una carriera musicale o fare della musica il proprio lavoro, quali suggerimenti potresti dare?
La prima cosa fondamentale è creare musica straordinaria.
Questo è il passo iniziale, indipendentemente da dinamiche di marketing o del mercato discografico.
La musica deve essere eccezionale, punto. La seconda cosa è essere aperti a collaborare con ciò che si ha intorno, anziché combatterlo.
Se l’ambiente in cui ci si trova non è ideale, è importante collaborare senza compromettere la propria integrità artistica.
Bisogna cercare di lavorare con ciò che si ha a disposizione.
Ma, ripeto, la base di tutto è la creazione di musica straordinaria. Se la musica è di qualità, tutto il resto seguirà naturalmente. Le persone sono attratte dalla bellezza della musica, e sono fermamente convinto di questo.
L’ultima domanda: immaginati in una grande stanza della musica, dove puoi trovare tutti gli album pubblicati nella storia. Devi però sceglierne solo tre. Quali sarebbero?
Beh, sarebbero “Insights” di Joy Division, “Wasted Light” dei Foo Fighters e un album di Damien Rice.
Abbiamo finito. Marco grazie, per me è stato un vero piacere. Buona musica.
Piacere mio Manuel !